Gli arrivisti


 Per arrivare dall’altra parte del dirupo dovemmo passare per un ponticello, stretto e traballante; sotto di noi correva un rio con acqua di colore così nera, quasi da non vederne il movimento. Superato il ponte percorremmo una strada sterrata in mezzo ad un paesaggio desertico, cosparso da una polverina rossiccia, molto fastidiosa e della quale i nostri vestiti di lì a poco 

sarebbero stati pieni. Dopo almeno cento metri, davanti a noi si presenta un castello protetto da alte mura, che stavano ormai cadendo a pezzi, ricoperte di un materiale apparentemente prezioso che però non riconobbi. Il portone in legno, di dimensioni giganti, era spalancato e nessuno vi era di guardia: “Facciamo attenzione Giulio” mi disse il mio gemello, e quasi a farlo apposta un secondo dopo udimmo un urlo disumano provenire dal centro del cortile del castello. Quell’urlo ci fece gelare il sangue dentro le vene, ma ciò nonostante, spinti dalla curiosità o per l’incapacità di fermarci o di correre via, continuammo sui nostri passi e decidemmo di addentrarci sempre di più. Proprio come le mura, anche il villaggio interno era ridotto male e del tutto disabitato, quasi lasciato andare in rovina: i tetti delle casettine avevano dei buchi e i muri erano coperti di edere e altre piante, che nonostante la loro dimensione e la loro rigogliosità, avevano un colore verde scuro tendente al marrone con spine aguzze. Continuammo verso l’entrata effettiva del castello, ma ancora nessuno, trovammo ancora un portone spalancato senza alcuna guardia. Ad un certo punto mi girai verso il mio gemello e con tono scherzoso gli chiesi: “Perché quella faccia? Sembra tu abbia visto un fantasma”. E così era; lui senza dire parola indicò col dito dietro di me, e girandomi vidi un cadavere. Questo era accasciato con la faccia sul pavimento e non mostrava segni di aggressione o tagli sul corpo, sembrava solamente che si fosse sdraiato e che lì ci fosse morto. Saltava subito all’occhio che l’uomo fosse nudo, completamente privato degli indumenti, quasi come se glieli avessero strappati via. Il mio gemello, che finora mi aveva guidato e istruito in questo viaggio all’inferno, questa volta sembrava turbato, quasi quanto me: “Delle scale!” mi disse, e così iniziammo a salire. Le scale portavano in cima alla torre più alta del castello, della quale da fuori non era possibile vedere la punta da quanto fosse alta. La salita era lunga e faticosa, così percorsi ormai molti gradini, decidemmo di riposare su un grosso balcone, appena sopra al livello delle nubi: da qui ormai non si poteva più vedere il terreno. Io e il mio gemello, appoggiati alla ringhiera, iniziammo a parlare e a domandarci cosa ci fosse dietro a quello strano posto, quando d'un tratto sentimmo un tonfo provenire proprio dalle nostre spalle. Era un altro uomo che era caduto dal cielo, morendo nello schianto, e sopra di lui un altro che lo stava denudando con foga e furia: aveva gli occhi rossi e sembrava non vederci nemmeno; sembrava non si curasse nemmeno di noi. 

Terminato il suo lavoro, tutto di corsa iniziò a risalire le scale. Noi due non potemmo fare altro che rincorrerlo su per la gradinata, sperando che questa non fosse ancora così lunga.

Purtroppo lo perdemmo dopo poco, poichè questo ad un certo punto si mise a quattro zampe, seminandoci del tutto. “Dobbiamo continuare a salire” dissi io al mio gemello, e lui subito dopo mi disse: “anche tu senti queste grida?”. Più si saliva, più le grida aumentavano e con esse la temperatura, infatti faceva sempre più caldo. Al nostro arrivo sulla cima trovammo un ammasso di persone, alcune nude, altre coi vestiti strappati, che cercavano di salire sul tetto, passando per le finestre e arrampicandosi. Arrivati a quel punto non potemmo fare altro che aggregarci e tentare di salire pure noi. Diversamente dall’uomo del balcone queste persone ci spintonavano, e più si saliva in alto e più iniziavano a diventare violente, strattonandoci e a sputarci addosso. Aggrappato al pennone del tetto c’era un uomo vestito con tanti gioielli e indumenti preziosi, e ne teneva altri in mano, che quasi gli scivolavano via, spingendo e tirando calci in faccia alle persone che cercavano di arrivare a lui e di prendere il suo posto. “Eccoci, siamo arrivati fino a qui” mi disse il mio gemello, “sulla cima del castello della superbia, dove ognuno vuole essere sopra agli altri, e migliore degli altri”.  

Io chiesi: “ma perché quell'uomo morto sul balcone allora?”

-“Molte volte, a voler essere migliore degli altri si rischia di cadere”

-“E perchè tutti gli uomini hanno iniziato a darci fastidio solo una volta arrivati in cima?”

-”Perchè quando eravamo in basso per loro non eravamo un pericolo e proprio perchè eravamo inferiori rispetto a loro non ci degnavano di uno sguardo, mentra arrivati in cima rischiavano di essere scavalcati di altre persone e quindi di finire più in basso. L’uomo più in alto di tutti è quello che ha rubato più oggetti dagli altri e che è riuscito, tramite altri peccati, ad arrivare in cima”.

Dopo che finimmo di parlare rivolsi lo sguardo verso la cima, e vidi una mano che dal basso afferrò la caviglia dell’uomo più in cima, e lasciando cadere tutti gli oggetti scivolò e cadde addosso a noi due, facendoci precipitare così nel vuoto. 

In mezzo alle nuvole, durante la caduta, vidi il mio gemello allontanarsi da me, e a quel punto preso dalla paura e per la troppa adrenalina svenni, precipitando a corpo morto dentro al fiume. Al mio risveglio sulla riva, mi rialzai e zoppicando iniziai a cercare il mio gemello.


G. Simonini 3CS

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